Lunga vita al cinema (e alle sale cinematografiche)

Caro direttore,

Il cinema ha sempre significato scoperta e avventura, l’inquietudine di un territorio alieno, la magia dello sconfinato e dell’imponderabile. Ma ci facevano da bussola regole precise: anzitutto la sua organizzazione di genere, per generi e generazionale.

C’erano i film al femminile (romantici, in costume, commedie musicali, musicarelli, le infinite versioni di “è nata una stella”) e quelli tipicamente maschili (western, polizieschi, di guerra). I cartoni animati per i bambini; “sapore di mare”, l’horror e il soft porno (la professoressa di ruolo ma anche la supplente, molto pulite e sempre sotto la doccia) per gli adolescenti.

Per i colti: la commedia sofisticata e l’humor inglese, le biografie di artisti belli e dannati, i “processuali” ( giudici ma soprattutto giurie decidono, dopo un dibattimento molto tecnico e pieno di colpi di scena, se è lui l’assassino o se lei deve ottenere un risarcimento milionario dalle multinazionali cattive; quei film sono responsabili della odierna inflazione di avvocati, i quali per vivere sono costretti ad aizzare risse condominiali o frodi alle assicurazioni, tanto “si vince facile”). Poi la commedia all’italiana, che prima era sboccata ma intelligente e sociologica e che ora è solo sboccata. Per i normodotati : “la polizia spara e ringrazia”, filmografia preferita da Salvini, i film di Natale, Rocky (da uno a dieci).

Poi tutto si è ibridato e la confusione è aumentata: nel western gli sporchi e cattivi di Leone piacciono agli intellettuali e, improvvisamente, gli indiani d’America sono i buoni; le donne diventano gli eroici ufficiali nei film di guerra; l’animazione abbandona la favola, sceglie l’attualità e trasforma i bambini in piccoli adulti; i robot i mutanti i divergenti hanno un’anima e si innamorano irrimediabilmente degli umani.

Il cinema, dunque, ha saputo sopravvivere a tutto. Ma all’orizzonte si delinea una minaccia mortale, almeno per la mia generazione: la fine della sala. La sala cinematografica è stata il tempio della fantasia, la consacrazione del mito, il rifugio del depresso.

Al cinema si entrava a qualunque ora (dalle 14,30 a mezzanotte), senza aspettare l’inizio del film. Più generazioni hanno sofferto di deficit cognitivi, soprattutto nell’uso della consecutio logica, perché vedevano prima il finale e poi lo svolgimento della storia. Io ad esempio ho affinato l’interesse per la sceneggiatura perché, avendo già constatato chi era l’assassino e ormai non più rapito dalla trama, studiavo come ci erano arrivati gli sceneggiatori.

Il sabato sera in biglietteria troneggiava il cartello: “posti in piedi”. Entravi e ti sedevi sullo scalino della galleria in attesa che qualcuno uscisse. Ti accoglieva una fittissima nebbia di sigaretta e ci mettevi minuti ad abituarti, ma allora non si conosceva il concetto di fumo passivo.

Quando ero studente universitario a Torino potevo andare al cine anche tre volte al giorno, visto che il Centrale d’essai programmava anche al mattino.

La magia della sala consisteva proprio nella sua scomodità, nel sacrificio che dovevi compiere. Dovevi uscire di casa, prendere la macchina, pagare il biglietto, respirare nicotina e, alla fine, farti spiegare la trama che non avevi capito perfettamente, perché volevi partecipare ad un rito collettivo, anche se poi al buio, completamente rapito dalla storia, non ti accorgevi degli altri. Era il bisogno di presenziare ad un evento, a modo suo, istituzionale.

Già oggi sedermi in una sala semivuota, che perciò appare inutilmente immensa, mi riempie di dolore.

Ma la situazione è molto peggiore: i ragazzi si abituano a vedere i film su schermi sempre più piccoli (ormai siamo a quello del telefonino), con una fruizione a singhiozzo, continuamente interrotta dalle telefonate in arrivo.

Provo sempre grande nostalgia tutte le volte che finisce un’epoca. Ma se la sala scompare, non significa che il cinema scompare. Non abbiamo mai visto e prodotto così tanti film e siamo di fronte ad una rinascita del documentario e del telefilm.

Forse dobbiamo smettere di distinguere i generi, i formati, le tipologie, le lunghezze degli audiovisivi. È un unica filiera che racconta il mondo da tanti punti di vista ma con un unico obiettivo: capirci qualcosa.

Gianluca Veronesi

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