Mario Mori, un docufilm ne celebra le gesta (con buona pace dei professionisti antimafia)

C’è un docufilm che si aggirerà presto per mezza Italia e che già sta turbando i sonni dei cosiddetti professionisti dell’antimafia. È quello girato da Ambrogio Crespi per la Index production sulla figura del generale per anni a capo del Ros dei carabinieri, Mario Mori.

L’uomo che ha catturato Totò Riina e che prima ancora aveva collaborato nella lotta al terrorismo con il compianto generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. E che esce fuori come un gigante da questo “Generale Mori. Un’Italia a testa alta”, prodotto in collaborazione con Giovanni Negri e la sua “Marianna”, il movimento politico dell’ex segretario del Partito radicale degli anni d’oro, e con il quotidiano “il Tempo” diretto da Gianmarco Chiocci.

Un docufilm che rimarrà una testimonianza importante e a tratti commovente di un uomo pressoché annientato, quando ormai era a fine carriera, da accuse strampalate e spesso in malafede. Che lo calunniavano indicandolo come una sorta di complice occulto di quella mafia che invece contribuì quasi ad annientare durante tutta la propria carriera.

Un destino peraltro condiviso con l’ufficiale, oggi colonnello, Giuseppe De Donno, altra voce narrante del docufilm insieme allo stesso Mario Mori. De Donno in effetti fu per anni a fianco di Mori, compreso il momento della cattura di Riina poi effettuata materialmente da Sergio de Caprio.

Al secolo il capitano Ultimo, altro perseguitato in una serie di inchieste e di processi (tra cui quello sulla fantomatica “trattativa” tra stato e mafia, tutto costruito sulle rivelazioni del figlio di Vito Ciancimino).

Proprio De Donno racconta fra l’altro un particolare quasi inedito nella pubblicistica conformista dei professionisti editoriali che fan parte del partito di coloro che credono in questa “trattativa”: “Riina quando fu arrestato aveva con se tutti i documenti e i pizzini in una busta e noi li sequestrammo e in seguito portarono a molti arresti”. Con buona pace di chi ancora vuole credere che nella casa di via Bernini a Palermo ci fosse stata una cassaforte e altri documenti trafugati.

Quello, dice De Donno, non era infatti il “covo” di Riina, che non venne mai trovato, ma solo la casa dove era ospitata la famiglia che il boss ogni tanto si recava a trovare accompagnato dall’autista Salvatore Biondino.

E la cattura fu possibile in quanto agli appostamenti in loco del 15 gennaio 1993 partecipò anche il pentito di mafia Balduccio di Maggio (arrestato poche settimane prima a Torino sempre dai Ros e subito dichiaratosi disposto a collaborare alla cattura dell’ex capo dei capi) che in passato era stato anche lui autista di Riina e che riconobbe l’uomo seduto in macchina accanto allo stesso Biondino.

Il docufilm di Crespi in realtà non cerca la polemica con i pm di Palermo del processo “trattativa”. La sfiora soltanto. Ma almeno in un punto ha il pregio di fare chiarezza proprio attraverso il racconto di Mario Mori: proprio a Palermo, dalla procura, fu sottovalutato il famoso rapporto “mafia e appalti” che lo stesso Giovanni Falcone, di cui tutti si sono riempiti la bocca dopo la sua morte, invece riteneva centrale per colpire Cosa Nostra nel portafoglio.

Quel rapporto che venne anche reso, senza alcuna apparente ragione, nella propria interezza accessibile agli imputati del procedimento relativo.

Il tutto per un’inspiegabile decisione della stessa procura, nell’epoca immediatamente precedente alla morte di Falcone.

Lo stesso documento che anche Borsellino, a quanto pare, riteneva importante approfondire per capire chi, al di là degli autori materiali, avesse azionato il telecomando a Capaci.

E che fu invece fonte di continua polemica tra il Ros di Mori e la stessa procura di Palermo anche nella gestione successiva alla morte di Falcone. Cioè quella del pur capacissimo pm Giancarlo Caselli.

Mori, come prima di lui il suo ideale maestro Carlo Alberto Dalla Chiesa, sono stati due investigatori forse troppo avanti con le proprie idee. Degli innovatori in un mondo fatto di scartoffie e di burocrazia. Nonché di veleni.

E infatti il palazzo di giustizia del capoluogo siciliano è sempre stato un proscenio per corvi e talpe della mafia oltre che di investigatori pronti al sacrificio.

Ecco perché questo docufilm su Mario Mori (girato dallo stesso regista di “Spes contra spem”, che era un atto d’accusa contro l’ergastolo ostativo, scritto più di un anno fa insieme al segretario di “Nessuno tocchi caino” Sergio D’Elia, e poi portato a Venezia al festival nella sezione dei documentari) è destinato a smuovere le coscienze intorpidite dal pensiero unico grillino.

Quel “pensiero” secondo cui gli eroi della lotta alla mafia sarebbero quelli , con malcelate ambizioni politico elettorali, che ancora corrono dietro alle balle di Massimo Ciancimino. E che in passato avevano contribuito a far condannare a farsi 20 anni da innocenti persone accusate dal finto pentito Vincenzo Scarantino.

Che le aveva indicate come i killer e i mandanti dell’omicidio di Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta a via D’Amelio. Un docufilm che ripristina le verità storiche e le separa dalle fantasie del professionismo antimafia. Magari inconscio.

E che separa, come si suol dire, il grano dal loglio.

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