Un immaginario televisivo diviso in due: mafia e antimafia. È ormai l’unico prodotto da esportazione – “Montalbano” a parte – delle serie televisive italiane. E con “Il cacciatore” di Stefano Lodovichi e Davide Marengo, liberamente tratto dal libro autobiografico del magistrato Alfonso Sabella (già assessore alla Legalità nella giunta di Ignazio Marino a Roma), questa tendenza giunge al culmine. Con alcuni effetti grotteschi.
A partire dal rinvio dal 14 febbraio al 14 marzo della messa in onda su Rai due. Probabilmente per non interferire con la campagna elettorale.
La trama è tutta incentrata su due universi uguali e contrari, quello della mafia di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, alle prese con le stragi del 1993 e con l’omicidio efferato di Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino, e quello del magistrato “cacciatore” di latitanti, cioè lo stesso Sabella, in cui il bene e il male si confondono. Come in una sorta di visione taoista della realtà.
Quanto poi questi sceneggiati facciano bene all’immagine dell’Italia all’estero è fenomeno tutto da studiare. Per ora appare difficile lamentarsi se riviste come Foreign Policy ci dipingono come un paese che sta affondando mettendo in copertina nell’ultimo numero l’immagine della Costa Concordia di Schettino. Anche se poi si scopre che l’articolo lo ha scritto Luigi Zingales.
Insomma, un Paese che non solo ha bisogno di eroi, ma anche di anti eroi. E, infine, di super eroi.
Avesse davvero avuto ragione “Stern”, il settimanale tedesco che negli anni di piombo fece uscire quella famosa copertina con la rivoltella sopra un piatto di spaghetti fumanti e persino al dente? O forse aveva visto giusto il tutto Silvio Berlusconi quando diceva che raffigurando l’Italia come quella della serie “La piovra” ci stiamo facendo del male da soli. Senza che nessuno ce lo chieda.
