Il “Corrierone” forcaiolo che condanna la Calabria senza appello

In un Paese ormai così pieno di odio che esulta per il proprio avversario politico fatto marcire, meglio morire, in galera (una volta incastratolo con inchieste e reati improbabili) come sta accadendo per l’ex senatore Marcello Dell’Utri, non c’è più da meravigliarsi di niente.

Però, certo, fa impressione constatare come il Corriere della Sera, in un pensoso quanto sarcastico articolo apparso giovedì a pagina 23, maramaldeggi sui sindaci e gli amministratori locali dei comuni calabresi sciolti per mafia.

“Rei” di volere riconsegnare la fascia tricolore e di avere chiesto udienza al ministro dell’Interno Marco Minniti affinché la politica si ponga il problema di una riforma “garantista” della legge La Torre che da qualche anno a questa parte viene applicata a un tanto al chilo.

Nell’articolo la parola “garantista” viene messa tra virgolette esattamente come la leggerete in questa sassata.

Non occorre avere letto Marshall Mc Luhan o Roland Barthes e neanche Umberto Eco per capire come alcuni segnali contenuti in articoli lunghissimi siano assimilabili al linguaggio del corpo che spesso contraddice le parole.

Il linguaggio del corpo del “Corrierone” puzza di forca, specie sotto elezioni.

I sindaci che protestano sono visti male. Come è visto male in questo momento qualunque cittadino di Ostia che osi ribellarsi a venire commissariato da Rosy Bindi.

E, infatti, a Ostia oggi come oggi se beccano un qualunque teppistello a spacciare hashish da quelle parti, cosa che a Roma avviene in decine si piazze e di siti non necessariamente periferici o dominati dalla delinquenza, lo arrestano e passa per boss della camorra o del clan Fasciani con tanto di notizia rilanciata sul Tg regionale del Lazio. Fino a un mese fa neanche un trafiletto sul Messaggero.

La cultura del sospetto alla fine ha trionfato e l’Italia dei paradossi si prende la propria agognata rivincita.

In Calabria non esiste solo il problema di uno scioglimento coatto di ogni realtà politica locale che sia solo sfiorata dal dubbio di infiltrazioni mafiose.

C’è anche, ad esempio, la vexata quaestio dei provvedimenti amministrativi di prevenzione anti mafia, come le famose “interdittive” alle aziende.

Si tratta per lo più di decisioni per cui, inaudita altera parte o quasi, se ti capita di avere un operaio parente alla lontana di un qualche capo bastone locale, ti possono chiudere l’azienda, sequestrarti i conti in banca, subentrare nei crediti e lasciare che i debiti ti distruggano l’impresa.

L’interdittiva antimafia così come strutturata è un vero e proprio esproprio leninista (anzi Lenin ne avrebbe avuto invidia) che lo stato opera sulla proprietà privata.

Affidando per di più i beni ad amministratori che abbiamo visto come operano con il caso Saguto, l’iceberg di un continente che prima o poi emergerà.

Quello che sta succedendo nel Sud Italia con il pretesto della lotta alla mafia fa impallidire pure i metodi dei Savoia nella guerra al brigantaggio.

E la cosa incredibile è che il primo motore immobile di questo meccanismo promana dal protagonismo di alcuni media in cerca di visibilità come nel caso di Ostia.

I giornalisti hanno preso il brutto vizio di sostituirsi alle notizie.

Così il litorale romano noto più che altro per essere sempre stato il mare della povera gente adesso è un sorvegliato speciale del pensiero unico anti mafia. Nella sua variante pre elettorale.

E il Corriere della Sera di questo pensiero unico ambisce al sacerdozio.

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